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Il caso è quello di un uomo che muore sul colpo, istantaneamente, senza sofferenza alcuna. Diverso dal caso in cui un uomo muoia dopo un lungo lasso di tempo, dopo aver lungamente sofferto.

Pacificamente, nella seconda ipotesi, il credito derivante dal risarcimento del danno patito per le lesioni riportate rientra nel patrimonio del ferito mortalmente e quindi, dopo la sua morte, si trasmette ai suoi eredi.

Nella prima ipotesi, invece, chi muore istantaneamente, senza aver patito sofferenza per le lesioni riportate, ci si chiede se il danno per la morte si trasmetta o meno agli eredi.

Anche le più recenti decisioni della Cassazione si sono uniformate al principio espresso dalle Sezioni Unite che, con sentenza n. 16350 del 22 luglio 2015, affermarono che non è risarcibile nel nostro ordinamento il danno “da perdita della vita”, poiché non è sostenibile che un diritto sorga nello stesso momento in cui si estingua chi dovrebbe esserne titolare.

In proposito, non si può non richiamare quanto Epicuro, nella Lettera sulla felicità a Meneceo, diceva: “quindi il più temibile dei mali, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte non ci siamo più noi. La morte quindi è nulla, per i vivi come per i morti: perché per i vivi essa non c’è ancora, mentre per quanto riguarda i morti, sono essi stessi a non esserci.”

In termini assai pratici, e quindi risarcitori, deve pertanto essere chiaro a tutti questo concetto: “è più conveniente uccidere che ferire mortalmente”; ovvio, non pagheremo il danno tanatologico agli eredi del morto istantaneamente

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