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Tutti parlano di criptovalute.
Ma da un punto di vista prettamente giuridico, come possono essere definite?
La giurisprudenza sembra aver accolto la tesi che definisce le criptovalute come dei beni, sia pur immateriali.
Le criptovalute sono quindi dei beni di tipo digitale che vengono utilizzate come modalità di scambio. Attraverso la crittografia le transazioni vengono rese sicure e anonime.

Le criptovalute si caratterizzano per essere decentralizzate, mancando un organismo centrale che ne regola il funzionamento. Esse costituiscono una reale alternativa al denaro tradizionale, c.d. a corso legale. C’è infatti chi è disposto a pagare per l’anonimato delle proprie transazioni, così le monete virtuali hanno visto moltiplicare il loro valore nel giro di pochissimo tempo, permettendo agli investitori speculazioni sulla variazione del loro prezzo.
Tanto premesso, ci si domanda se, in quanto beni, le criptovalute possono essere conferite in una società per aumentarne il capitale sociale, al pari di una collezione di quadri.
A tale domanda ha tentato di rispondere il Tribunale di Brescia con un recentissimo provvedimento emesso il 25 luglio 2018 che, tuttavia, non è riuscito a fare completa chiarezza sulla questione.
Il caso era quello di chi aveva tentato di conferire alla società quote di una criptovaluta per un importo di notevole valore.
Peraltro, sul presupposto che le criptovalute non consentono una valutazione concreta del quantum destinato alla liberazione dell’aumento del capitale sottoscritto, il notaio rifiutava l’iscrizione della relativa delibera nel Registro delle Imprese.
Da qui l’insorgere della controversia con la richiesta degli interessati al Tribunale di ordinare al Registro delle Imprese l’iscrizione della menzionata delibera di aumento di capitale.
Sui conferimenti dei beni in natura, cosa dice l’attuale normativa?
Ai sensi dell’art. 2465 c.c. è possibile conferire beni in natura da parte del socio, imputandolo a capitale sociale. Tale procedura, tuttavia, necessita di una perizia di stima del bene conferito, redatta e giurata da parte di un revisore legale, che contenga la descrizione dei beni conferiti, l’indicazione dei criteri di valutazione adottati, nonché l’attestazione che il loro valore è almeno pari a quello ad essi attribuito ai fini della determinazione del capitale sociale e dell’eventuale sovrapprezzo.
Nella fattispecie, pare che i soci avessero effettivamente una perizia giurata che quantificava il valore dei beni conferiti nel capitale della società.
Peraltro, la questione riguarda la possibilità di attribuire un valore di scambio della criptovaluta, e, secondo il notaio, tale possibilità non vi era nel caso concreto, tenuto conto della specifica criptovaluta utilizzata dal socio, non dotata apparentemente di un mercato valido di scambio e quotazione.
Diverse sono invece le ragioni dei soci secondo i quali, invece:

– era sta dimostrata la trasferibilità della disponibilità di criptovaluta in capo alla Società, mediante messa a disposizione delle credenziali (“transaction password”) da parte del socio conferente;
– secondo l’Agenzia delle Entrate il possesso di moneta virtuale va inserito nella dichiarazione dei redditi;
– la criptovaluta è un bene alla pari di altri beni immateriali, come i diritti di proprietà industriale;
– la criptovaluta oggetto di contesa è scambiata su mercati non regolamentati e soggetta ad una quotazione;
– l’alto livello di diffusione della valuta virtuale oggetto di causa confermerebbe che trattasi di mezzo di pagamento sufficientemente riconosciuto e accettato anche dagli esercenti.
Come anticipato, sul caso decide il Tribunale di Brescia che, esordisce affermando, in via preliminare: “…che in questa sede non è in discussione l’idoneità della categoria di beni rappresentata dalle c.d. “criptovalute” a costituire elemento di attivo idoneo al conferimento nel capitale di una s.r.l.” che si potrebbe interpretare quale placet per l’utilizzo di criptovalute anche nel conferimento ai fini di un aumento del capitale di una società.
Pur tuttavia, quello stesso Tribunale, in riferimento alla quella specifica moneta virtuale, ritiene la sua inidoneità ad essere oggetto di conferimento stante la mancanza di un vero e proprio “mercato” di scambio e quotazione che ne impedisce di fatto una vera e seria quotazione.
Segue il tentativo del Collegio del Tribunale di chiarire cosa può essere conferito e cosa non potrà mai far parte del capitale sociale. E, in questo senso, il Tribunale solleva la questione della pignorabilità, che parrebbe eliminare, allo stato delle cose, la possibilità di utilizzo delle criptovalute.
Secondo il Tribunale, infatti, costituiscono requisiti fondamentali di qualunque bene adatto al conferimento:
– l’idoneità a essere oggetto di valutazione in un dato momento storico;
– l’esistenza di un mercato attivo che determini un certo grado di liquidità del bene;
– “l’idoneità del bene a essere “bersaglio” dell’aggressione da parte dei creditori sociali, ossia l’idoneità a essere oggetto di forme di esecuzione forzata … “.
Sotto quest’ultimo profilo il Tribunale solleva un interessante rilievo giuridico direttamente attribuibile alle modalità tecniche di funzionamento della criptovaluta, che “potrebbero, di fatto, renderne impossibile l’espropriazione senza il consenso e la collaborazione spontanea del debitore“. Se il debitore non consegna spontaneamente la password, la chiave di utilizzo, il pignoramento si ferma.
Tale questione interessa non solamente il campo del diritto societario ma l’intero comparto della garanzia del credito.
Qualche cliente incomincia a domandarci se è vero che la criptovaluta, di fatto, è un bene impignorabile.
In effetti parrebbe proprio di si.
Tante sono infatti le problematiche relative alla pignorabilità delle criptovalute, non potendo trasportare l’istituto del classico pignoramento presso terzi al mondo delle criptomonete.
Un primo problema è connesso all’individuazione della criptomoneta in base al soggetto. In altri termini, come faccio a sapere che il mio debitore possiede delle criptovalute? E’ praticamente impossibile. Ad oggi, non esiste infatti un servizio di investigazione per scoprirlo.
Anche qualora sapessimo che, effettivamente, il debitore possiede delle criptovalute, di fatto, cosa gli pignoro? Il computer dove ci sono le criptovalute che poi non posso vendere?
Anche tecnologicamente, a livello di giustizia, si è fondamentalmente impreparati
Per questi motivi pratici riteniamo non sia possibile procedere con il pignoramento o con il sequestro o la confisca delle criptovalute.

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